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以柔克刚 yǐ róu kè gāng Vincere la durezza attraverso la morbidezza

以柔克刚
yǐ róu kè gāng
Vincere la durezza attraverso la morbidezza


Carissime lettrici e carissimi lettori,

oggi affrontiamo l’analisi di un chengyu con un significato molto profondo: 以柔克刚 (yǐ róu kè gāng) – "vincere la durezza attraverso la morbidezza". Un concetto semplice nella forma, ma rivoluzionario nell'applicazione, che sfida l’idea che la vittoria possa solo avvenire attraverso la forza e il potere.

Questo principio nasce dal cuore del pensiero taoista, precisamente dal 道德经 (Dào dé jīng), opera composto probabilmente intorno al IV secolo a.C. e attribuita a 老子 (lǎozǐ), figura leggendaria di cui tutti hanno sentito parlare e comunemente conosciuta per essere il padre del Taoismo.

Per chi volesse acquistare il Dào dé jīng vi consigliamo questa versione in italiano:

Daodejing. Il canone della via e della virtù. 


Dào dé jīng una breve introduzione

Sebbene piuttosto breve, circa 5.000 caratteri, il Dào dé jīng non è tuttavia un testo di facile comprensione.

Volendo analizzare più da vicino quest’opera nel suo complesso, possiamo fare riferimento a una tradizionale divisione dei suoi contenuti in due sezioni principali:

  • 上篇 (shàng piān) – Il Libro del Dào (道经, dào jīng), che comprende i capitoli 1–37 e si concentra principalmente sulla “Via” (il Dào) universale e sulla dimensione metafisica.
  • 下篇 (xià piān) – Il Libro del Dé (德经, dé jīng), che comprende i capitoli 38–81 e si concentra soprattutto sulla “Virtù / Potenza” (Dé) e sull’applicazione del Dào nella vita quotidiana e nel governo.

Parallelamente a questa divisione (Dào/Dé), risalente al secondo secolo dopo cristo, possiamo pensare al Dào dé jīng come a un mosaico filosofico: al suo interno troviamo tessere raggruppate per colore e soggetto (metafisica, etica, politica). Non esiste un percorso lineare; la lettura salta da una tessera all’altra, da un tema all’altro, e ogni verso si rivela in modo inatteso. Sul piano pratico, questo meccanismo stimola continuamente il lettore, spingendolo a cercare connessioni tra i diversi temi; allo stesso tempo, favorisce un progressivo ampliamento dello sguardo, orientandolo verso quella visione d’insieme che tende al Dào stesso.

Questa mancanza di sistematicità non è dunque un difetto, ma è perfettamente coerente con il suo insegnamento centrale: una filosofia che pervade così profondamente ciò che ci circonda da non poter essere ingabbiata in un sistema rigido, ma che va intuita attraverso immagini, paradossi e frammenti di saggezza.

Il testo del Dào dé jīng contiene infatti una varietà di argomenti che spaziano da:

  • Metafisica e la natura del Dào: la sua natura ineffabile, eterna e generatrice e il suo rapporto con il non-essere (无 wú) e l'essere (有 yǒu).
  • Etica e Condotta del Saggio: le qualità che deve possedere come umiltà, semplicità, non-contendere (不争 bù zhēng), flessibilità mentale, vuoto interiore, spontaneità. Come ci si comporta nel mondo avendo compreso il Dào.
  • Governo e Politica: il concetto di "governare mediante il non-agire" (无为而治 wúwéi ér zhì). Critica delle leggi oppressive, della guerra, delle tasse eccessive. L'ideale di un governante umile che lascia che il popolo segua la sua natura.
  • Epistemologia e i limiti del linguaggio e della conoscenza discorsiva: il valore del silenzio, della conoscenza intuitiva e dell'azione senza sforzo. La critica alla saggezza convenzionale e allo studio pedante.
  • Metafore e Immagini paraboliche di cui il testo è ricchissimo: immagini potenti che diventano chiavi di lettura universali come il principio che troviamo espresso nel chengyu di oggi.


La vittoria del supremamente molle sul supremamente rigido

Il concetto espresso dal chengyu di oggi lo ritroviamo nel capitolo 43 del Dào dé jīng. Qui di seguito troverete il capitolo estratto da: https://ctext.org/ tradotto e discusso.

天下之至柔,驰骋天下之至坚。
tiānxià zhī zhì róu, chíchěng tiānxià zhī zhì jiān.
La cosa più morbida del mondo supera quella più dura del mondo.

至柔 (zhì róu) è il "supremamente molle/flessibile" (es. acqua, vento, spirito). 至坚 (zhì jiān) è il "supremamente duro/inflessibile" (es. roccia, armatura, volontà rigida). 驰骋 (chíchěng galoppare) evoca l'immagine di qualcosa che domina, attraversa o supera con facilità e maestria. 

无有入无间,吾是以知无为之有益。
wú yǒu rù wú jiàn, wú shì yǐ zhī wúwéi zhī yǒuyì.
Il "Non-avere" (无有 wú yǒu) penetra nel "non-spazio" (无间 wú jiàn).

无有 non è il semplice "non avere", ma ciò che è incorporeo, intangibile, vuoto (come il vento, il pensiero, lo spazio). 无间 significa "senza fessure", ciò che è compatto e impenetrabile. Il paradosso è che solo ciò che è vuoto e senza forma può entrare in ciò che è compatto e impenetrabile.

不言之教,无为之益,天下希及之。
bù yán zhī jiào, wúwéi zhī yì, tiānxià xī jí zhī.
Per questo il saggio sa (吾是以知 wú shì yǐ zhī) che il non-agire (无为 wúwéi) porta al beneficio (有益 yǒuyì).

L'osservazione delle leggi naturali (la morbidezza che vince) porta alla conclusione che: 无为 (wúwéi), l'agire senza forzatura, in armonia con il flusso naturale, è la via più efficace per avere un beneficio o un vantaggio.

Questa paradossale legge del Taoismo ci dice che la vera forza non risiede nella resistenza, ma nell'adattabilità, una visione profonda del mondo che mostra quanto la logica della prevaricazione attraverso la forza e la violenza sia infondo destinata a fallire poiché la gentilezza a lungo andare sottometterà sempre la forza.


Dal principio taoista all’utilizzo pratico del chengyu

Sebbene il Dào dé jīng contenga l’origine filosofica di questo chengyu, il suo uso lo troviamo più tardi in alcuni interessanti utilizzi pratici.

诸葛亮 (zhūgé liàng), leggendario stratega del III secolo d.C. parla di "controllare" o "dominare" (制 zhì) la forza con la debolezza, scrivendo "以弱制强" (yǐ ruò zhì qiáng) - "usare la debolezza per controllare la forza". 

Più tardi nei registri di controllo delle acque risalenti alla dinastia Qing, troviamo l'espressione "以柔制刚", che viene usata per descrivere l’abitudine di utilizzare materiali flessibili per costruire gli argini in quanto più efficaci e duraturi di strutture rigide che possono facilmente crollare.

Un concetto comune anche per le arti marziali dove spesso si ricorre alla tecnica di controllare la forza dell'avversario e usarla a proprio vantaggio.

Nell'uso linguistico quotidiano, il verbo più forte e diretto 克 (kè) ha soppiantato 制" (zhì) mantenendo il senso di strategia, ma perdendo parte della sfumatura di "controllo abile" a favore di un'idea più generica di "vittoria".

Così nella storia questo principio si è andato adattando e plasmando a varie situazioni da quella ingegneristica, militare alla vita di tutti i giorni. 


La storia di oggi scritta da Rui Wen

Vi lascio cari amici alla storia di oggi scritta dalla nostra Rui Wen, con testo in cinese, pinyin e traduzione in italiano.

小明班里有个同学叫小强,说话声音很大,做事也很冲动,一有不顺心就爱发脾气。很多同学都不太愿意和他一起玩。

Nella classe di Xiǎomíng c'era un compagno di nome Xiǎoqiáng, che parlava a voce molto alta, agiva in modo impulsivo e si arrabbiava facilmente. Molti compagni non erano troppo disposti a giocare con lui.

有一天,小强在体育课上不小心撞到了小明,还大声指责小明挡路。小明没有生气,也没有和他争吵,而是平静地说:“没关系,你跑得快,我下次会注意的。”

Un giorno, durante l'ora di educazione fisica, Xiǎoqiáng urtò accidentalmente Xiǎomíng e lo rimproverò ad alta voce, accusandolo di avergli tagliato la strada. Xiǎomíng non si arrabbiò né iniziò a litigare. Con calma disse: "Non fa niente. Tu corri veloce, io la prossima volta starò più attento."

小强听了,反而愣住了,脸一下子红了。他低下头,小声说:“对不起,是我太急了。”

Sentendo queste parole, Xiǎoqiáng rimase invece di stucco e arrossì all'improvviso. Abbassò la testa e mormorò: "Mi dispiace, è che sono stato troppo impulsivo."

从那以后,小强不再对小明发脾气,还慢慢学会控制自己的情绪,和同学们相处得越来越好。

Da quel giorno in poi, Xiǎoqiáng non si arrabbiò più con Xiǎomíng, e imparò gradualmente a controllare le proprie emozioni, andando sempre più d'accordo con i compagni di classe.


捕风捉影 bǔ fēng zhuō yǐng Catturare il vento, afferrare l'ombra

 捕风捉影
bǔ fēng zhuō yǐng
Catturare il vento, afferrare l'ombra





Carissimi lettori,

oggi vorrei parlarvi del chengyu 捕风捉影 (bǔ fēng zhuō yǐng). Questo idioma cinese compare per la prima volta nell’《汉书》 (hàn shū – Libro degli Han), l’opera monumentale dello storico 班固 (bān gù), completata nel I secolo d.C.

Appare in un celebre passaggio in cui Ban Gu critica duramente i metodi con cui l’imperatore Wu della dinastia Han dissipava le risorse dell’impero nella ricerca dell’immortalità:

听其言,洋洋满耳,
tīng qí yán, yángyáng mǎn ěr, 
Le loro parole riempiono le orecchie di grandiosità, 

若将可遇; 
ruò jiāng kě yù; 
e sembra quasi che si possano realizzare;

求之,荡荡如系风捕景,
qiú zhī, dàng dàng rú xì fēng bǔ jǐng, 
ma cercarle è vano come legare il vento e catturare le ombre, 

终不可得。
zhōng bùkě dé.
alla fine è impossibile ottenere qualcosa.

L’imperatore Wu degli Han (汉武帝, hàn wǔdì, regno 141–87 a.C.) fu uno dei sovrani più potenti e influenti della Cina antica. Espanse notevolmente i confini imperiali e rafforzò la centralizzazione del potere, ma più avanti negli anni cadde ossessionato dall’idea di sconfiggere la morte. Sperperò immense ricchezze finanziando sciamani, alchimisti e spedizioni alla ricerca di elisir miracolosi, in una corsa disperata che Ban Gu condanna come un vano tentativo di “catturare il vento”.

Il significato originale del chengyu era quindi una condanna razionale della superstizione e della ricerca dell'impossibile. Oggi, 捕风捉影 (evoluzione nel tempo dell’espressione 系风捕景) descrive qualsiasi tentativo di agire o accusare qualcuno basandosi su indizi vaghi, prove inconsistenti o semplici voci, come anche di tentare di conoscere o afferrare ciò che è intrinsecamente sfuggente, illusorio o impossibile da possedere.

Eppure, l’essenza di questa critica trova un’eco tragica e sorprendentemente perfetta in una vicenda avvenuta oltre un secolo dopo l’imperatore Wu, che ha come protagonista l’allora imperatore 汉成帝 (Hàn Chéngdì), negli anni in cui la dinastia Han stava avviandosi verso il suo lento e inesorabile declino.


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L’ultima notte di Han Chengdi

La notte è profonda e silenziosa. Han Chengdi vaga solitario tra i padiglioni del palazzo. In quel momento non è più l'Imperatore, ma un uomo sperso e tormentato dai fantasmi del passato. 

La voce di 赵合德 (zhào hédé, Zhao Hede) lo chiama, invitandolo a rientrare. In quell’istante, egli comprende di non essere mai stato davvero libero: libero di amare ed essere amato sinceramente, libero di scegliere il proprio destino, libero di avere un figlio. E tuttavia, ciò da cui non era mai riuscito a liberarsi erano le sue stesse ardenti passioni.

Non vi è errore più grande, per un uomo, che lasciarsi dominare dalle proprie passioni, permettere loro di renderlo sordo e cieco. 

Così era stato per lui, per troppo tempo. Cieco alla corruzione che si era diffusa nell’impero come una pestilenza. Cieco alla sete di potere delle bellissime sorelle Zhao, determinate a essere le sole a generare il futuro imperatore. Cieco alle morti inspiegabili dei propri figli, strappati alla vita appena nati.

Forse giunse un momento, alcuni anni prima, in cui anche le passioni più violente persero la loro presa sulla sua mente. Fu il giorno in cui la dama 曹宫 (cáo gōng, dama Cao) entrò nella sua vita.

Era giovane, estranea ai mali del mondo, alla brama di potere e alle invidie di corte. Pura, come lui non era mai stato. Il loro fu un amore breve ma intenso, e lei gli donò un figlio. Un figlio di cui udì il pianto una sola volta, prima che anche quello gli venisse sottratto. Poco dopo, anche la dama Cao fu imprigionata e costretta al suicidio. Una vita vissuta sotto il dominio delle passioni lo aveva reso troppo debole per opporsi.

Quando tutto fu perduto, l’immagine della dama Cao e l’eco del pianto del figlio si scolpirono per sempre nella sua memoria.

Da allora, cercò un erede con rinnovata ossessione. Consultò maghi e alchimisti, sperperò ricchezze in qualsiasi pratica potesse dargli un'altra possibilità. Un figlio che fosse non solo l'erede al trono, ma il segno che il Cielo lo avesse perdonato. Ma non ci fu alcun nuovo erede.

Da allora, la ricerca di un erede riprese con rinnovata e cieca ossessione. Consultò maghi e alchimisti, dissipò ricchezze in ogni rituale che promettesse una seconda possibilità: un figlio che non fosse solo l’erede al trono, ma il segno che il Cielo avesse perdonato la sua ignavia. Ma non ci furono eredi per lui.

Zhao Hede lo chiamò ancora. Nel suo tono non c’era più desiderio né dolcezza, solo stizza e impazienza.

Egli tornò da lei, tornò ad annegare il dolore in quelle passioni che lo avevano reso cieco. E proprio quella notte, nel 7 a.C., Han Chengdi morì.


La Storia: il dramma di Corte e la Crisi Dinastica

La tragica vicenda della dama Cao non fu un episodio isolato, ma il simbolo più eloquente della crisi che logorò gli ultimi anni di regno di Han Chengdi.

Dopo la nascita del figlio delle Dama Cao, la potente concubina Zhao Hede ne ordinò l'eliminazione. La Dama Cao fu rinchiusa e costretta al suicidio, mentre la balia e i servi a conoscenza del fatto furono messi a morte per cancellare ogni traccia.

L'imperatore, dipendente dalle concubine Zhao (le sorelle: 赵合德Zhào Hédé e 赵飞燕Zhào Fēiyàn) e dalla loro influenza, non intervenne.

Questo episodio, insieme alla morte prematura di altri figli avuti da altre concubine, lasciò l'imperatore senza un erede sopravvissuto.

La sua successiva e disperata ricerca di un figlio, consultando maghi e sperperando ricchezze in rituali, divenne una vana ossessione parallela a quella del suo antenato per l'immortalità.

Ma se l’imperatore Wu cercava di afferrare l’ombra della vita eterna, Han Chengdi inseguiva l’ombra di una discendenza che gli sfuggiva, schiacciato dal potere delle Zhao.

La morte improvvisa di Han Chengdi nel 7 a.C. lasciò il trono vacante. Il potere passò a un nipote bambino, l'Imperatore Ai, e la reggenza si consolidò saldamente nelle mani della famiglia di sua madre, i Wang. Questa instabilità creò le condizioni perfette perché, pochi anni dopo, Wang Mang potesse infine usurpare il trono (9 d.C.), ponendo fine alla dinastia Han Occidentale. La storia personale di Han Chengdi, la sua incapacità di garantire un erede e il suo governo debole, fu dunque un anello cruciale nella catena di eventi che portò al crollo della dinastia.


Nomi dei personaggi

Imperatore Cheng degli Han: 汉成帝 (Hàn Chéngdì)

Zhao Hede (la favorita imperiale): 赵合德 (Zhào Hédé)

Zhao Feiyan (sorella di Hede, Imperatrice): 赵飞燕 (Zhào Fēiyàn)

Dama Cao (concubina di rango inferiore): 曹宫 (Cáo Gōng)

Ban Gu (lo storico): 班固 (Bān Gù)

Imperatore Wu degli Han: 汉武帝 (Hàn Wǔdì)

Wang Mang (l'usurpatore): 王莽 (Wáng Mǎng)


隔岸观火 gé àn guān huǒ - Osservare il fuoco dalla riva opposta

隔岸观火
gé àn guān huǒ
Osservare il fuoco dalla riva opposta


Carissimi lettori, 

oggi parliamo di un chengyu molto interessante e significativo che risale al periodo (五代十国, Wǔ Dài Shí Guó - Cinque Dinastie e dei Dieci Regni), un'epoca di conflitti e instabilità che ha seguito la caduta della dinastia Tang.

In questo periodo fiorì una figura molto peculiare: il monaco poeta (诗僧, shī sēng)

I monaci poeti erano uomini davvero interessanti, da un lato coltivavano la ricerca interiore e la spiritualità, dall’altro usavano la poesia per trasmettere le loro intuizioni spirituali, descrivere i loro stati di coscienza elevati o semplicemente celebrare la bellezza di una vita distaccata dal mondo alla ricerca del proprio cammino interiore.

I monaci poeti erano già presenti in Cina da molti secoli, ma durante la caduta della dinastia Tang, in un mondo sempre più incerto, la via del monaco rappresentò un rifugio dai dolori del mondo e i monasteri divennero oasi di cultura e di pace, dove i monaci potevano praticare la spiritualità e la letteratura. 

È proprio in questo contesto che nasce il chengyu 隔岸观火 (gé àn guān huǒ), "osservare il fuoco dalla riva opposta" che deriva da una breve poesia che il monaco poeta: 乾康 (Qián kāng) scrisse per farsi ricevere da 齐己 (Qí Jǐ), un celebre monaco poeta dell’epoca, una delle figure più influenti e rispettate del suo tempo.


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Andando a visitare Qí Jǐ

Quanta pace tra questi alti picchi, quanto silenzio lungo questo ripido sentiero.

Mi volto e vedo un panorama tinto di rosso. Forse sono i fuochi della città, forse è il colore del tramonto, forse l’alba di una nuova guerra all’orizzonte.

Ho viaggiato a lungo e ovunque ho visto lo stesso, desolante spettacolo: l’impero, un tempo unito e potente, è ora un puzzle di regni in guerra. I generali si tradiscono l’un l’altro, i campi bruciano e la gente soffre. Il mondo sembra diventato un grande incendio in cui ognuno cerca di arraffare le ultime braci di ciò che fu.

Mi chiedo: come fanno a non essere stanchi di tutto questo?

Cammino assorto nei miei pensieri finché un monastero non si rivela davanti a me: sono arrivato.

Le mura, le cui pietre scure sono consumate dalla pioggia e dal tempo, sembrano assorbire la luce del giorno. I tetti di tegole smaltate brillano come rugiada e si incurvano verso il cielo come le spalle di un vecchio saggio. Due enormi leoni guardiani fiancheggiano il portale principale.

Un luogo maestoso, solido, radicato nella montagna: un baluardo fatto di quiete e pace, ma anche di potere e ricchezza, un argine monolitico contro il fluire turbolento del mondo.

All’ingresso, un giovane monaco con le mani nascoste nelle ampie maniche, mi chiede con voce educata la ragione della mia visita. Intuendo la mia estraneità, e senza attendere una risposta completa, mi invita con un cenno cortese in una stanza laterale per il tè.

L’aria profuma di sandalo e incenso. La stanza è piccola ma finemente arredata: colonne di legno di nanmu, lucide come specchi, sorreggono un soffitto dipinto con draghi e fenici; pesanti tende separano gli spazi e mantengono il calore; su un piccolo tavolo in legno, intagliato con grande maestria, è disposto un servizio da tè di porcellana bianca e azzurra, così raffinato che esito a sfiorarlo. 

Il giovane monaco mi porge una ciotola colma del prezioso infuso; il suo gesto è un perfetto studio di grazia distaccata. I suoi occhi compiono un rapido inventario della mia persona: il saio logoro e rattoppato, le unghie rotte, le scarpe di paglia sfilacciate. Mi riserba la stessa cortesia che si usa a corte, un'arma di esclusione vestita di seta.

Il giovane posa la ciotola e si offre di annunciarmi a 齐己 (Qíjǐ). Lo interrompo con gentilezza e chiedo soltanto un foglio di carta, un pennello e un po’ d’inchiostro. 

Stendo il foglio sulla superficie ruvida del tavolo e scrivo questi pochi versi: l’unico lasciapassare che possiedo...


《投谒齐己》tóu yè qí jǐ - Andando a Visitare Qi Ji

隔岸红尘忙似火,
gé àn hóngchén máng sì huǒ
Di là dalla riva, il mondo di polvere rossa brilla come fuoco.

当轩青嶂冷如冰。
dāng xuān qīng zhàng lěng rú bīng
Qui, davanti al padiglione, la barriera di verdi pendii è fredda come ghiaccio.

烹茶童子休相问,
pēng chá tóng zǐ xiū xiāng wèn
Fanciullo che prepari il tè, smetti di interrogarmi,

报道门前是衲僧。
Bào dào mén qián shì nà sēng
annuncia solo che alla porta c'è un monaco col saio rattoppato.


Distacco Spirituale o indifferenza?

Questo breve e splendido componimento celebra il distacco spirituale. Il rifiuto di un mondo ormai in decadenza (la polvere rossa che brilla come fuoco) per cercare la via dello spirito (la barriera di verdi pendii fredda come ghiaccio). 

In questo senso, "osservare il fuoco dalla riva opposta" è un atto di saggezza e di autopreservazione spirituale. È il comportamento di colui che cerca il distacco da un mondo illusorio e sempre più travolto dalla barbarie.

Tuttavia, sebbene il chengyu di oggi derivi da questa poesia, il suo significato si discosta dal senso del componimento ed è proprio qui che nasce l'ambiguità storica del chengyu 隔岸观火 (gé àn guān huǒ).

Perché cosa succede se quel "fuoco" non è solo il tumulto della società, ma è un'ingiustizia che brucia i deboli? Se quella "riva opposta" non è un rifugio spirituale, ma il comodo balcone di chi potrebbe aiutare ma non lo fa?

In tal senso un ritiro spirituale può rappresentare un atto di egoismo, di attaccamento verso sé stessi.

Nel linguaggio moderno, 隔岸观火 (gé àn guān huǒ) ha abbracciato proprio questo secondo significato, capovolgendo completamente la sua connotazione iniziale. Oggi questo idioma non descrive il ritiro spirituale di un monaco, ma l'atteggiamento egoista di chi, potendo assistere qualcuno in difficoltà, sceglie invece di stare a guardare, indifferente e al sicuro.

Certo non credo che questa visione potesse passare inosservata a persone dedite alla contemplazione del mondo e la spiritualità. In particolare colpisce l’ultima parola 衲僧 (nà sēng – monaco con il saio rattoppato) della poesia di Qián kāng, in cui l’autore da certamente importanza all’umiltà e alla rinuncia delle ricchezze del mondo in ogni sua forma sia quella civile che monastica. Ed è forse proprio quella la parola più importante del poema poiché lo stesso Qí jǐ era conosciuto come una persona estremamente umile che non bramava affatto la ricchezza.

In conclusione, la storia di questo chengyu ci racconta come il confine tra ascesi e indifferenza, tra ricerca interiore e fuga dalle responsabilità, è sottilissimo. La stessa azione, il distacco, può essere un viaggio verso la luce o una ritirata nell'ombra dell'orgoglio e dell’egoismo. Sta a noi, ogni volta, decidere da quale riva stiamo osservando, e se quel fuoco che brucia lontano ci chiama, in qualche modo, a non restare semplicemente a guardare.


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